La città del santo o il santo della città?
La tavola rotonda del primo luglio scorso pone il presupposto per offrire un contributo a dirimere la questione se Pietro Celestino sia stato sulmontino prima che santo.
Il punto è assai controverso, ma quello che ci interessa oggi non è il certificato anagrafico, ma la sua cittadinanza.
Nonostante due dei più autorevoli storici che se ne sono occupati, Peter Herde e Arsenio Frugoni, avanzino forti dubbi sul vero luogo di nascita, ci sono numerose località che, a vario titolo e con ragioni più o meno fondate, mettono sul tavolo documenti talvolta fantasiosi o basati su studi storici dalle basi traballanti, per fregiarsi dell’onore e del prestigio di aver dato i natali a un santo considerato per secoli più famigerato che famoso o popolare.
Questo certamente come conseguenza di una interpretazione discutibile ed inesauribile fonte di contesa riguardante il III canto dell’Inferno al verso 60: “Colui che fe’ per viltade il Gran Rifiuto”. Ma soprattutto, credo, in conseguenza della damnatio memoriae conseguente alla rinuncia al papato.
Evento che segnò si la sua caduta in disgrazia sotto l’aspetto liturgico – non ha infatti mai toccato i vertici di devozione tributati ad altri – ma divenne l’origine di una fama universale, alimentata dalle suggestioni connesse alla strumentalizzazione fallace e ideologizzata, dell’immagine di un contestatore ante litteram, di una sorta di sovvertitore del potere costituito ed dispotico della Curia Romana.
Pietro in verità fu tutt’altro, per quanto le profezie di Gioacchino da Fiore apparirono all’epoca tagliate su misura per lui. Contribuì anche il fatto che la casa madre dell’Ordo Celestinorum divenne un carcere, ebbe la chiesa sconsacrata e perse il collegamento spirituale e l’identificazione originaria nella coscienza collettiva locale.
Come pure l’Eremo di Sant’Onofrio al Morrone, forse il luogo religioso più importante d’Abruzzo, fu privato della sua funzione di sito, tra i pochissimi in Italia, in cui era possibile lucrare l’indulgenza plenaria e perpetua durante tutto l’anno. La diocesi di Sulmona-Valva, cui fu affidato informalmente dal legittimo proprietario (il Comune di Sulmona), in seguito ne concesse impropriamente la custodia a terzi e divenne, fortunatamente per un breve periodo, addirittura un rifugio per scampagnate ad uso di privati.
Potremmo parafrasare il detto dicendo: lontani dal centro cittadino, lontani dal cuore.
Imprevedibilmente però le candidature a patria di Celestino sono cresciute nel tempo, di pari passo con la riscoperta del suo lascito morale e spirituale relativamente recenti, grazie agli effetti dirompenti del combinato disposto tra un Concilio Vaticano II e i moti del ‘68.
Congiuntura che spinse perfino un non credente come Ignazio Silone, nel pieno di una crisi di coscienza personale e politica, a cercare di restiturire un senso alle cose recuperando il significato originario del messaggio cristiano e il valore di una spiritualità autentica. L’esito della ricerca lo portò a scrivere il celebre testo teatrale “L’Avventura di un povero cristiano” dopo aver cercato le tracce di Pietro Celestino a Sulmona e dintorni.
Non a L’Aquila quindi, non a Isernia, non a Raviscanica in Terra di Lavoro o Sant’Agelo Limosano, ma a Sulmona e nella sua valle. E già qui potrei fermarmi e affermare, empiricamente, che se uno dei massimo scrittori del ‘900, tradotto in oltre cinquanta lingue, decise di attraversare queste contrade non fu certo frutto del caso, bensì la convizione che da queste parti si conservassero le testimonianze autentiche di quel passaggio e le radici di una vicenda unica. Basta leggere l’introduzione al testo e il passaggio “La Maiella è Libano di noi abruzzesi” per capirlo.
Tuttavia, all’inizio di questo intervento ho volutamente utilizzato il termine “sulmontino” e non “sulmonese” per connotare l’appartenenza della memoria di Pietro Celestino alla matrice popolare e periferica, e approfittare della circostanza per rimarcare la differenza di due termini che servono a definire con diverse sfumature l’appartenenza alla stessa città. Possono essere usati entrambi, a seconda di come si vuole colorare il concetto da esprimere.
Desueto, talvolta apertamente spregiativo, certamente popolaresco o addirittura cafone, in senso siloniano però, il primo; neutro, generalmente diffuso e utilizzato nel linguaggio formale, politicamente corretto il secondo.
Digressione lessicale finalizzata al tentativo di chiarire, oltre al fatto che Pietro Celestino sia indiscutibilmente cittadino di Sulmona, anche l’evidenza che si tratti di un caso conclamato di duplice e, per certi versi, contrapposta valenza identitaria e culturale.
Non è il santo patrono della città, da sempre sotto la protezione del concittadino San Panfilo, lui si sulmonese, nato qui vicino presso Monte Mitra ed evangelizzatore dei Longobardi.
Infatti risale solo a qualche anno addietro il fatto che un vescovo, Angelo Spina, molisano di nascita e quindi legato alla figura di Celestino, gli dedicò una chiesa nella zona nuova di Sulmona, una statua nel cortile della curia e promosse, nel 2010, la visita pastorale di Benedetto XVI il quale, in un ormai celebre discorso in Piazza Garibaldi, ipotizzò indirettamente l’imitazione, poi avvenuta, della rinuncia celestina.
Lo è invece a Pratola Peligna, quasi in sordina rispetto alla celeberrima Madonna della Libera, in una chiesa dedicata al suo culto nascosta nel borgo “Dentro la terra” in condominio con la S.S. Trintà.
Però è nella cattedrale dedicata al vescovo Panfilo che si conservano sue importanti, autentiche e certificate, reliquie.
A Sulmona solo in epoche relativamente recenti gli vengono tributati gli onori che la sua eredità merita, sia pure senza gli sfarzi che invece L’Aquila immancabilmente dedica al Papa Celestino V con il corteo della Perdonanza e l’Apertura della Porta Santa di Collemaggio al culmine di quello che fu un protogiubileo.
Rimarcando, se necessario, la bivalenza della figura che è frate ed eremita qui nella sua terra, Papa e regnante a L’Aquila.
Qui Pietro sarebbe rimasto una specie di ospite in casa sua se non fosse che da alcuni decenni l’importanza della figura storica e il fascino del personaggio sono riapparsi come un fiume carsico dal sottosuolo, portando alla riscoperta del suo essere inconfutabilmente sulmontino.
Grazie anche e paradossalmente, sarebbe sbagliato e ingeneroso non riconoscerlo, proprio agli aquilani accusati spesso a torto di campanilismo a danno di Sulmona. E senza alcun dubbio grazie a personaggi fuori dagli schemi come Quirino Salomone o, per ragioni antitetiche, il compianto Prof. Mario Setta.
Infatti se non ci fossero stati i fasti della Perdonanza, la dimensione più autentica e “sulmontina” dell’umile eremita Pietro da Morrone, non sarebbe riemersa e diventata pilastro di quel riconoscimento UNESCO dovuto proprio alla connotazione tradizionale e popolare del rituale del Fuoco del Morrone.
Infatti il santuomo in questione, prima di essere Papa Celestino V è per i sulmontini di allora, e per oltre cinquant’anni, niente più e niente meno che Pier da Morrone. È soprattutto l’eremita al quale ricorrere per la cura dei malanni che preferisce stare in una grotta sulla montagna, bastione protettivo e incombente allo stesso tempo verso il lato Nord-Est della città. Ma è, al contempo, un accorto “manager” che edifica ovunque eremi, rifugi e cenacoli, fino al maestoso monumento che è l’abbazia di Santo Spirito a Morrone.
Che sorge, guarda caso, grazie alla donazione, nel 1259, da parte della Universitas dei sindaci sulmonesi, del terreno circostante la prima cappella edificata da Fra’ Pietro, non ancora Celestino V, praticamente ai piedi del suo rifugio, dove sorgerà poi il monastero.
Risana i bilanci di abbazie mal gestite, inventa le “fraterne”, diventate poi in molti casi confraternite, come sanno bene quelli della Santa Maria di Loreto e della Trinità. Edifica parte della zona Sud di Sulmona, come contrassegnato oggi da un monumento nei pressi di Porta Napoli realizzato grazie ad una raccolta fondi voluta dal comitato “Torna a Sulmona Celestino”. Denominazione che si spiega da sé. Fra’ Pietro bonifica intere aree paludose della campagna sulmonese e vi introduce nuove colture grazie alla sue esperienza di monaco benedettino e cistercense. Inventa i primi “pronto soccorso” lungo i tratturi e norma la certificazione dei pesi e delle misure nelle fiere per evitare truffe e violenze. E lo fa tutto da qui, o meglio: dalla Badia.
È erborista e taumaturgo, al punto da essere oggetto già in vita di fervida devozione da parte della popolazione locale, prima di divenire santo canonizzato con un “processo lampo” per l’epoca e grazie al riconoscimento di oltre cento miracoli certificati. Un record assoluto. Miracoli dello Spirito Santo certamente, ma anche della conoscenza della medicina naturale e della politica francese contro il suo presunto carnefice, Bonifacio VIII.
Insomma, una celebrità locale, una sorta di “Ghandi del Medioevo” se vogliamo citare padre Quirino Salomone.
Comunque, ad un certo punto: puff! Scompare dalla storia e resta solo nella memoria collettiva, riaffiorando volta per volta in saggi e pubblicazioni di autori locali e non, con le motivazioni più disparate da quelle dantesche, a quelle ideologico-etiche di Silone, mistico-newage o simbolico-massoniche del filone templare.
Fatta eccezione, va riconosciuto, per la bibliografia di Angelo De Nicola che ha avuto il merito di analizzare il fenomeno sotto molteplici punti di vista, e del lavoro impagabile di Fabio Maiorano grazie al quale sono stati messi punti fermi e definitivi su molti aspetti controversi.
Ma il solco che ha tracciato è profondo e nel tempo si contano a dozzine i battezzati/e col nome di Celestino/a in tutta la zona, più dei Panfilo in città e in diretta concorrenza con i più celebri Antonio, Domenico, Mario, Giuseppe, Concetta e Assunta.
Fatto sta che la sua presenza ha continuato ad aleggiare sulla Sulmona città d’arte e cultura, che deve una parte significativa di questa definizione proprio a Pietro Celestino. Il suo lascito ha avuto una doppia valenza e una doppia identità, come tentavo di spiegare, ed ha inciso fortemente nella coscienza collettiva della gente del posto.
In passato si è manifestato attraverso fenomeni unici come la “resistenza umanitaria” durante la II Guerra Mondiale o a quella che definirò impropriamente “eresia” dei nostri preti comunisti nei turbolenti anni ‘70 (il già citato Mario Setta, Raffaele Garofalo, Pasqualino Iannamorelli).
In tempi moderni con il recupero del suo originario, potente, messaggio di pace e fratellanza tra persone e comunità, del quale la Giostra Cavalleresca, realtà sociale e culturale profondamente radicata nel tessuto cittadino, intende ribadirne la portata fortemente identitaria e l’innegabile valenza internazionale con la scelta, del tutto condivisibile, di individuare Pietro Celestino come nume tutelare della Giostra cavalleresca d’Europa.
(SANTI E CITTÁ – 1 luglio 2023 – Tavola rotonda – Intervento di Giulio Mastrogiuseppe – Presidente Associazione Celestiniana Sulmona)