Son of Italy. Omaggio a Pascal D’Angelo.

Ho sentito parlare per la prima volta di Pascal D’Angelo agli inizi di questo secolo. Era forse il 2003 quando venni in possesso del volume intitolato ...
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Ho sentito parlare per la prima volta di Pascal D’Angelo agli inizi di questo secolo. Era forse il 2003 quando venni in possesso del volume intitolato proprio “Son of Italy” che le Edizioni QualeVita avevano da poco pubblicato, credo in occasione di una iniziativa dedicata proprio al “poeta della pala e del piccone“, definizione che poi lo ha identificato per sempre.

Cominciai a leggere il libro e in ogni pagina sentivo gli echi dei racconti dei nonni, anzi, di mio nonno materno da cui ho ereditato il nome. Le memorie del paese e della povertà, delle famiglie numerosissime perchè i figli servivano per lavorare i campi e, siccome la mortalità infantile era alta se ne facevano moltissimi.

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Era durissima la vita di allora. Mi è rimasta impressa nella mente un frase feroce, un motto apparentemente cinico detto da mio nonno, che recitava più o meno così: “se devo morire io, possa morire mia moglie, se deve morire mia moglie, possa morire un figlio“.

Un pensiero che, visto con lo sguardo di oggi fa accapponare la pelle ma, se mettiamo un momento da parte la nostra moderna parte “benpensante”, aveva una sua selvaggia sensatezza perché, tradotto, significa che se sono io a morire la mia stirpe si estinguerà per sempre, se muore mia moglie posso prenderne un’altra, se muore un figlio posso farne un altro. La più concreta e sincera crudezza in un ragionamento che, alla fine, mira solo alla conservazione della specie e quindi senza alcuna implicazione etica o morale.

Del resto lo diceva un uomo nato nel 1896 in un casolare ai piedi del Morrone, secondo di sei fratelli, emigrato la prima volta nel 1911, scappato dal fascismo a negli anni ’20, contrabbandiere di wiskey per sopravvivenza durante il proibizionismo e che mi raccontava di aver conosciuto Sacco e Vanzetti.

Son of Italy” fa riaffacciare alla memoria tutto questo, la crudezza delle condizione esistenziale del popolo dell’epoca che ti spingeva a cercare “fortuna” altrove ma che nella stragrande maggioranza dei casi diventava solo un passaggio verso supplizi ed umiliazioni gravati dall’estraneità e da una cultura ostile, tale da far balenare anche nei negletti la nostalgia di casa, quella vera.

In Abruzzo, in provincia dell’Aquila, nel meridione in genere siamo praticamente tutti figli di immigrati o imparentati con immigrati. La condizione di immigrato è una presenza costante nella formazione di tutte le generazioni che si sono succedute fino all’inizio degli anni settanta, periodo in cui il “benessere” accumulato nel periodo del “boom” economico, produsse i suoi frutti: i ritorni in patria e lo sviluppo edilizio con case e villette di campagna ambiziose e sovradimensionate.

Una condizione che le generazioni più recenti non hanno dovuto conoscere e di cui a malapena hanno notizie indirette, spesso tramite lettere o cartoline di cugini, figli di terza generazione, provenienti da USA, Germania, Belgio, Francia, Svizzera, Argentina, Australia ecc. che scrivono perché vogliono tornare a conoscere le proprie radici.

Oggi invece, riguardo alle nuove generazioni, si parla di “restanza” invece che di emigrazione. Una specie di resistenza ideologica e civile contro spopolamento ed economia di mercato. Ma prima non c’era davvero nessuna alternativa.

Memoria, quella dell’emigrazione, che invece va conservata e valorizzata, diffusa e comunicata affinché chi vive l’Italia ingrata e smemorata di oggi possa capire che il sensegalese, il tunisino o il sikh turbantato che si aggirano nelle campagne o nei luoghi di lavoro che gli italiani ormai disprezzano e producono troppi morti per sfruttamento, in fondo sono né più né meno nostro nonno dopo lo sbarco e la quarantena ad Ellis Island.

Quindi grazie a Massimo Tardio e Panfilia Colangelo che già vent’anni fa curarono questo volume e che domenica prossima, 14 luglio, presenteranno la nuova edizione del libro di poesie presso la casa dove Pascal D’Angelo nacque e visse prima di partire adolescente e diventare in America un uomo e il cantore dell’emigrazione.

Con un ospite particolare (non me ne vogliano gli altri) e ben noto ai frequentatori del social media: l’abruzzese fuori sede, alias Gino Bucci, ovvero il narratore dell’abbruzzesità che, tra nostalgia, ironia e scanzonati sfottò oggi rappresenta nella maniera più attuale e lucida lo sguardo e la condizione di appartenenza e di distacco dalla nostra terra.

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