Massimo e Virgilia. Una storia nel ‘900

Questo post con Celestino e le sue cose non c’entra nulla. Ma la nostra è prima di tutto una associazione culturale per cui è doveroso onorare questa ...
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Questo post con Celestino e le sue cose non c’entra nulla. Ma la nostra è prima di tutto una associazione culturale per cui è doveroso onorare questa definizione. E il tema lo merita.

Conosco Massimo Carugno da almeno trent’anni, quindi da circa metà della mia presenza sul pianeta. Però, come succede con alcune amicizie, capita di essere superficiali per eccesso di confidenza o perché magari ti manca la conoscenza di pezzi dell’esistenza altrui. Queste falle, inevitabilmente, portano a costruirsi una immagine incompleta benché sia essa, spesso, frutto di discrezione o rispetto della vita privata di queste persone. Soprattutto, come accade nel mio caso, se si è molto riservati sulle proprie faccende e di conseguenza applichi lo stesso criterio agli altri.

Faccio questa premessa perché voglio cercare di spiegare la mia reazione quando sono venuto in contatto con la sua vena di autore. Nonostante non fosse un mistero per chi lo frequenta, la sua indole tendenzialmente edonista distrae dalla sua struttura culturale da cui riaffiora, in maniera spesso, inaspettata la formazione del Liceo Ovidio.

La sua esibita passione per la musica, Whitney Huston in testa, l’ironia salace che suscita a volte antipatia negli sprovveduti e il suo aspetto fisico che denuncia apertamente il buongustaio che vi abita, la sua pervicace fede socialista riformista, sono elementi di distrazione che già da soli potrebbero far cadere nella trappola di crearsi una fuorviante impressione mentale di Massimo.

Certamente però l’avvocato Carugno è affetto da una felice dualità pirandelliana tra quello che è davvero e quello che è per gli altri. E meno male, dirò.

In effetti, se così non fosse, la sua parte seria fatta di studi classici e giuridici non si sarebbe mai mescolata con la parte creativa, la fede politica non avrebbe mai prodotto una testimonianza attiva tra i dirigenti nazionali del fu PSI e dei riformisti, né fatto scaturire i divertimenti da DJ dei tempi che furono e di imprevisto scrittore. Complice, in questa sua ultima veste, forse il bisogno di raccontare le scoperte di una vita fatta di viaggi che fanno illuminare i suoi occhi con una luce da sognatore quando ne parla con chi lo merita.

Per cui, mentre nel suo molto apprezzato secondo libro (il primo non l’ho letto) “L’ombra dell’ultimo manto” se si fa esclusione della politica, le sue passioni ci sono tutte a partire dall’amore sviscerato per Sulmona e per i riti pasquali di cui il libro diventa una specie di elegia, la nostalgia africana e il sano apprezzamento per la bellezza a tutto tondo delle donne, l’intrigo poliziesco che mutua dalla conoscenza professionale della materia, in “Virgilia” il paradigma muta completamente.

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Quando ne ho parlato con lui non ho potuto fare a meno di riconoscere il coraggio quasi da incosciente che è stato necessario, perché anche se si tratta di un personaggio chiave per la politica non solo italiana degli inizi del ‘900, anche se è stata bandiera del movimento anarchico del “Secolo breve” il materiale bibliografico a disposizione è veramente limitato.

Non solo, per “entrare” nel personaggio ha dovuto leggere, oltre alla documentazione storica esistente, le opere di Virgilia D’Andrea che, lo dico con estremo rispetto, sono molto sofferte e dure da digerire. Già titoli come “Torce nella notte” oppure “Tormento” e “Non sono vinta” danno una idea dei contenuti.

Questo, se vogliamo, raddoppia il valore del lavoro di Massimo Carugno perché oltre ad aver scelto un tema e una storia difficili, ha in qualche modo condiviso la sofferenza della protagonista del libro che è, voglio sottolinearlo, un romanzo e non un saggio storico o politico.

Carugno ha tentato, riuscendoci talvolta in maniera commovente, di restituire al lettore l’umanità di Virgilia.

Gli artifici narrativi della storia parallela, del contrappunto di fatti storici come il terremoto del 1915 con fatti inventati ma verosimili, come l’incontro con l’adolescente Secondino Tranquilli alias Ignazio Silone, il processo a Sacco e Vanzetti e la figura della nipote del primo che è la sua infermiera, il legame romantico oltre che politico con l’ideologo anarchico Armando Borghi conosciuto grazie all’avvocato socialista Mario Trozzi, l’incontro forse non solo di fantasia con Carlo Tresca, la lotta al fascismo con i fuorusciti e il peregrinare tra Parigi, Berlino e New York, dove Virgilia diventa parte e rifermento della cultura libertaria, anarco-socialista o apertamente rivoluzionaria ai livelli di una Rosa Luxemburg o, più tardi, di una filosofa come Hannah Arendt (la sua “banalità del male” fatte le dovute differenze, potrebbe essere una chiave di lettura delle sofferenze della D’Andrea), vengono snocciolati nel racconto coinvolgendo chi legge.

Restituisce così nuova e meritata luce non solo a Virgilia D’Andrea, ma anche a un periodo fondamentale della nostra storia e a degli autentici giganti del ‘900 che la Storia non ha onorato nel modo migliore. Questo si legge tra le righe del libro, una riflessione che ha che fare con le nostre radici, con la nostra identità e con quello che siamo diventati oggi: un popolo di smemorati che persa tra smartphone, social e futilità varie, ha dimenticato persino i propri avi, la parte migliore della loro ascendenza. che non è solo Ovidio o Celestino V.

Ha dimenticato le differenze tra i giganti della libertà e della giustizia sociale nati a Sulmona e costretti a fuggire perché perseguitati dal mostro dell’omologazione della dittatura fascista, di cui oggi si vedono rigurgiti da contrastare anche con lavori come quello fatto da Massimo con “Virgilia – Protagonista del Novecento“.

Le ideologie totalitarie non hanno eroi, solo carnefici, perché gli unici eroi che la gente ricorda sono quelli che hanno combattuto per la libertà.

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