A due settimane di distanza forse c’è abbastanza lucidità per parlarne, certo ancora con emozione ma con serenità.
Non credo alle premonizioni ma…
Lo premetto: io non credo nei sogni premonitori. In verità non credo in genere. Non all’al di là, non al paranormale, nemmeno a tutto l’apparato che la paura della morte ha tradotto in un po’ tutte le culture, trasformandola in credenze religiose.
È un mio limite: sono tendenzialmente relativista e diffidente verso tutto quello che non è riconducibile a pensiero razionale. Ma si sa, nessuno è perfetto.
Però devo ammettere che la notte tra il quattro e il cinque novembre 2024 è stata particolarmente difficile e foriera di dubbi. Pensieri opprimenti si sovrapponevano a sogni agitati, in un dormiveglia che non trovava spiegazione.
Mi sono ricordato più tardi che già mi era accaduto in un altro paio di occasioni e che le circostanze poi si erano rivelate funeste.
Sospettavo che fosse a causa dell’Election Day negli Stati Uniti e del bombardamento di notizie, sondaggi, informazioni e, soprattutto, disinformazioni.
Per mesi hanno disturbato il riposo di quanti erano consapevoli che stavamo per addentrarci in un territorio inesplorato della nostra storia collettiva, dell’intera civiltà occidentale. E dei segni di guerre conclamate o latenti che a questa circostanza si accompagnavano.
Solo all’alba di un 5 novembre appena cominciato, in un barlume di coscienza comprendo la ragione vera che agitava l’inconscio: al mattino presto intravedo sullo smartphone la notifica di Whatsapp con cui Paolo (Pierino) Giorgi annunciava il “ritorno al Padre” di Quirino Salomone.
Chi era Padre Quirino?
L’iniziale groppo alla gola per l’emozione che non riusciva a sciogliersi in pianto, è sparito quasi subito perché al senso di una perdita enorme si è sostituito il sentimento di gratitudine, quasi gioiosa, per il pensiero di aver avuto la fortuna e il privilegio di imbattermi in un personaggio così fuori dagli schemi.
Soprattutto perché lo era doppiamente, anzi, triplicemente, in quanto indossava una tonaca – e il sottoscritto le tonache non le ha mai apprezzate molto – era francescano, seguace del misconosciuto Pietro da Morrone e musicista diplomato al conservatorio.
In altre parole: era dalla parte dei poveri senza compromessi; era un avversatore rigoroso dell’uso del potere per altro che non fosse il bene comune, quello della chiesa cattolica in testa; era cultore di un linguaggio, quello musicale, che Arthur Schopenhauer definiva a ragione l’unico veramente universale.
E poi mi era simpatico. Mi fu simpatico istantaneamente. Forse per i modi schietti che lo accomunavano al suo compaesano tarantolese e “compare” nella fondazione sulmonese della fiaccolata inaugurale del Cammino del Perdono, il naturalizzato sulmonese Tonino Moschetta, da Bagnaturo come Pietro fu da Morrone.
Diverso da tutti i religiosi, tanti, che ho incontrato nel tempo. Stranamente simile, nell’ortodossia rivoluzionaria della fede veramente autentica – quasi eversiva come è comprensibile in chi crede nel profondo di portare un messaggio di verità – all’altra faccia della medaglia nostrana. Cioè quel Mario Setta da Bussi sul Tirino, quasi suo coetaneo, che accettò di essere espulso dalla comunità ecclesiale pur di non venire a compromessi sul contenuto fondamentalmente “comunista” del cristianesimo.
Se fossi una persona credente potrei dire che le vie del Signore sono infinite, il disegno divino imperscrutabile, per giustificare le traiettorie storiche ed esistenziali che hanno condotto ai piedi del Morrone questi due sant’uomini, incrociandone i destini, sulle tracce di Pietro Celestino, loro stella polare nel concetto di chiesa e di fede.
E che hanno contribuito significativamente, tramite loro, alla sua riscoperta sul piano storico, religioso e culturale a livello locale, in Abruzzo e oltre.
Forse la sincronicità, azzarderebbero i tanti affascinati della moda “New Age” che esplose negli anni ’80 del secolo scorso, abbracciando contemporaneamente una teoria di Carl Gustav Jung, un disco dei Police e da un libro, “La profezia di Celestino” di James Redfield, che però con il nostro c’entrava praticamente nulla a parte il nome nel titolo.
Quello che mi intrigava di Quirino Salomone era la miscela unica di modernità e tradizione, la capacità di parlare con il Dalai Lama e portarlo a Collemaggio, di andare a perorare l’idea della Perdonanza alle Nazioni Unite, di inviare umilmente un messaggio a Vladimir Putin invocando la pace in nome di Celestino, di padroneggiare il senso e la forza della comunicazione moderna accanto alla forza della parola, del verbo in senso biblico.
Il lascito e l’eredità morale
Faccio fatica a definire “prediche” i discorsi che rivolgeva ai presenti ad ogni occasione. La sua consapevolezza della necessità di parlare al cuore delle persone, ma anche di conferire alle parole la giusta forza evocativa, tale da scuotere il torpore della coscienza, lo ha portato spesso a pronunciare concetti da far traballare la legittimità dell’apparato religioso condannando, con frasi fiammeggianti ma allo stesso tempo non violente, una sostanziale inerzia di fronte al suo gregge sofferente e smarrito.
Non era un personaggio influenzabile o manovrabile Quirino Salomone, lo sapevamo tutti. Per primi coloro che gradualmente lo hanno emarginato riguardo alle iniziative della sua creatura, La Perdonanza.
Malsopportava ormai lo sfarzo e la relegazione in secondo piano dei temi e dei messaggi che ne avevano connotato il recupero della tradizione e l’avvento ormai più di quaranta anni addietro. E non ne faceva mistero.
Questo pur amandone l’origine di festa di riconciliazione come in fondo lo stesso Celestino la volle. Troppe fanfare e poca attenzione per i fragili e per il messaggio di pace, se posso fare una rozza e apocrifa sintesi del suo pensiero.
Tant’è che covava una speranza più o meno segreta, quelle di portare finalmente nell’Abbazia di Santo Spirito a Morrone – vera casa di Pietro da Morrone – la sede del Master della Scuola di Pace sotto l’egida dell’ONU, della Fondazione Studi Celestiniani per la Pace. Per lui significava un po’ tornare alle origini del tutto.
Vedremo se avremo la forza di non disperdere quanto creato da Padre Quirino, sostenendo le iniziative che dovessero partire in questo senso, a fianco di tutti coloro che ci si impegneranno, magari rilanciando il suo messaggio anche in altri contesti, approfittando anche del Giubileo alle porte.
Forse non è stata una coincidenza che lo portò anni fa a scrivere un testo che s’intitolava “Il Ghandi del Medioevo” come Ignazio Silone, che definì la Maiella “Il Tibet di noi abruzzesi“. Padre Quirino raccoglieva in se questi due aspetti: tra le montagne del nostro Tibet c’era nato, il messaggio non violento di Pietro Celestino lo portava dentro i suoi geni. Come un altro grande abruzzese, sommo teorico italiano della non violenza, Marco Pannella.
Quirino Salomone era un po’ entrambe le cose, moderno radicale e antico testimone di fede e di pace. Influenzato dallo scontro ideologico di fine anni ’60 (viene ordinato sacerdote proprio in quegli anni) e dal Concilio Vaticano II, appartiene all’ordine che eredita il credo del “Che (Guevara) di Assisi” come Gianni Padoan definì Francesco in suo libro del 1974, ma anche figlio del suo tempo.
La gratitudine non è di questo mondo: lo sgarbo alle esequie.
E non vorrei dirlo, ma non mancherà solo a noi “celestiniani” ma all’intera coscienza di una regione e di L’Aquila in particolare. Città definita del Perdono da Papa Francesco, che è riuscita a rendere plastico il significato della termine “ingratitudine” quando, spero fortemente per un errore o una svista comunque imperdonabili, alla sue solenni esequie ha mancato di mandare almeno il suo gonfalone.
Padre Quirino ha perdonato e assolto talmente tante volte, lo farà anche in questo caso. Anche tanti di noi, in sua memoria, perdoneranno, ma questo sgarbo non credo troverà assoluzione.