Qualche mese addietro, fermo al semaforo dell’incrocio di Porta Pacentrana a Sulmona, non ho potuto resistere a scattare con lo smartphone una veloce foto di una plancia pubblicitaria, piazzata praticamente a ridosso delle mura che proteggevano in passato la città.
L’ispirazione è stata data dal notare due manifesti, di due distinte iniziative: una locale, l’altra un evento organizzato ad Avezzano, capoluogo dei Marsi.
Il primo riportava la pubblicità della 32a sagra della Zampanella, il secondo promuoveva le iniziative di “Marsicaland – festival diffuso dell’agroalimentare” con mercato “diretto della terra”, corteo storico (?) show cooking, tavole rotonde, concerti ecc.
Voglio precisare a scanso di equivoci che io sono un fautore della sagra maranese, non fosse altro per il fatto che, giovane imprenditore, con la mia attività dell’epoca realizzammo il primo manifesto e i materiali di comunicazione della manifestazione.
Forse per “deformazione professionale” non ho potuto fare a meno di vedere in quei due manifesti, messi insieme dall’imponderabile potere della colla dell’ufficio affissioni, una rappresentazione pressoché perfetta del divario sempre più ampio tra i territori della regione.
In particolare, nel caso specifico, quello riguardante il mondo agricolo di cui qualche settimana fa ho avuto modo di parlare con un agronomo, dipendente di una delle più grandi aziende di orticole del Fucino.
Il sostanziale abbandono delle pur fertili terre della Valle Peligna e del sulmonese in particolare, dove a suo dire alcune colture specifiche raggiungerebbero standard qualitativi impensabili altrove, per il professionista marsicano era spiegabile ma non comprensibile.
Nel senso che le ragioni storiche e politiche, oltre alle dinamiche demografiche, ne individuano le cause ma non la massiccia trasformazione avvenuta nell’arco di qualche decennio.
Però quei due manifesti in realtà mi dicevano fondamentalmente una cosa, cioè che nella testa delle persone il comparto agricolo in questa parte d’Abruzzo è più che altro rimasto folclore mentre in Marsica è ormai industria, anche culturale.
Rientrato in contatto con il mondo agricolo perché diventato erede in particolare di un uliveto, mondo che avevo conosciuto piuttosto bene da ragazzino, ho dovuto prendere atto di quanto l’enorme risorsa potenziale rappresentata dalla storia agricola della zona, sia appannaggio di una percentuale minima della popolazione e di organizzazioni agricole ormai marginali per la mancanza di ricambio generazionale.
Perdendo così doppiamente una fetta di economia e una fetta importante di cultura locale, quell’autenticità che attira turismo di nicchia, la qualità di prodotti che meriterebbero ben altra valorizzazione.
I tentativi passati hanno dato risultati più o meno inconsistenti in termini di rilancio del settore. Vedi l’iniziativa avviata e poi chiusa in via Federico II a Sulmona o i vari consorzi di produttori.
C’è un museo dell’aglio rosso nell’Abbazia Celestiniana di Santo Spirito a Morrone, alcune cantine di buona qualità, qualche frantoio e un paio di cooperative che pure si sono sviluppate, ma ne complesso siamo molto indietro e, nonostante un ritrovato interesse verso l’agricoltura da parte delle nuove generazioni, l’abbandono dei terreni è evidente.
Non saprei dire se una soluzione esista, ma posso dire che nemmeno sono a conoscenza di iniziative forti. A Sulmona credo non esista nemmeno un assessore comunale all’agricoltura.
Tutto si riduce alla competizione per gli organi elettivi nel consorzio di bonifica o, appunto, in qualche tradizionale sagra che, sia pure benemerita, non serve a nulla se paragonate all’approccio che segnalavo e che si vede nel manifesto dei marsicani.