Quirino Salomone e il paradosso di Celestino

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“Paradosso: Affermazione, proposizione, tesi, opinione che, per il suo contenuto o per la forma in cui è espressa, appare contraria all’opinione comune o alla verosimiglianza e riesce perciò sorprendente o incredibile” (definizione dell’Enciclopedia Treccani)

Chiunque conosca in maniera un poco più approfondita la storia e la storia di Pietro Celestino in particolare, riflettendoci non può fare altro che constatare quanto sia paradossale tutta la sua vicenda, quanto siano grandi le contraddizioni sulle quali storici, religiosi e cultori della materia si sono arrovellati per secoli, giungendo spesso a conclusioni contrastanti.

Tra chi lo ritiene un povero vecchio eremita, quasi privo d’istruzione e competenze e chi lo annovera tra i personaggi più emblematici e rappresentativi della sua epoca, tratteggiandolo come una specie di difensore della vera fede sulla falsariga di Francesco D’Assisi, la contrapposizione è netta ed è chiaramente visibile attraverso le migliaia di pagine scritte sulla sua storia.

Però nessuno, o quasi, ha o ha avuto il coraggio di affrontare la questione di fondo all’origine della sua secolare assenza dagli altari, perfino da quelli eretti a decine in Italia e in Europa da lui in prima persona e poi dal suo ordine.

Se escludiamo Ignazio Silone, che però lo fa in epoca moderna e da laico, la maggior parte di coloro che hanno affrontato la questione hanno scelto quella che potremmo definire la parte “facile”, cioè il clamoroso atto di dimissioni che tutti conoscono e sul quale è inutile tornare ogni volta.

E poi c’è Padre Quirino Salomone.

Questo pensiero mi si è affacciato alla mente un paio di sabati fa, quando Padre Quirino appunto, ha tenuto a Pratola Peligna una conferenza per rilanciare i contenuti, per la verità volutamente assai modesti e pressoché didascalici del suo libretto “Celestino della gente”, proprio perché rivolto ad un tipo di lettore poco abituato alle letture in genere e a quelle di carattere sprituale anche meno.

Nella sua indomita, anche se impari, lotta contro la società materialistica e la scomparsa dei valori fondanti che ne tengono ancora insieme i pezzi, questo francescano nato – e come poteva essere diversamente – sulla Maiella rappresenta un paradosso assoluto, tanto quanto il suo amatissimo Pietro da Morrone.

Perchè definirlo tale se, in fondo, ripete quello che ogni religioso onesto predica da secoli?

Per il semplice fatto che spesso, nei suoi appassionati e appassionanti discorsi, con una lucidità insospettabile considerate le sue ormai ottantasei primavere sulle spalle, mette ancora a soqquadro i luoghi comuni, e i capisaldi del potere ecclesisastico e non, riguardo alle scelte di Pietro diventato Celestino. In particolare quando si riferisce alla Perdonanza e all’uso improprio e strumentale che si fa del suo significato.

Il paradosso di Celestino o, per meglio dire, del lascito che Celestino ci ha fatto, consiste nell’uso “fraudolento” che si fa della parola giubileo, perché l’intento del Papa eremita era quello di celebrarne uno nel senso originale del termine, dove il credente autentico e sinceramente pentito ottenesse non una remissione dei peccati con relativo sconto sulle penitenze da scontare o il prezzo da versare in cambio dell’indulgenza, ma una cancellazione totale e della colpa e della pena. Una cosa, ai tempi, veramente inaudita.

In altre parole, e qui sta il nodo sul quale quasi tutti si guardano bene dall’accendere i riflettori: un Papa eletto indìce la Perdonanza con le motivazioni che conosciamo però, contemporaneamente, con quel gesto sottrare alla Chiesa, sia pure in quella singola circostanza, il potere di somministrare le indulgenze a seconda delle convenienze e degli interessi del momento.

Di fatto ne azzera la possibilità di “amministrare” l’anima dei credenti e l’apparato organizzativo e politico che ne trae legittimazione e forza all’interno del sistema sociale e della scena politica del tempo.

In cuor suo Pietro Celestino doveva esserne ben consapevole, molto più della dichiarata inadeguatezza ammessa nel testo della rinuncia. La sua scelta, dettata certamente dalla purezza profonda del suo spirito, fu tuttavia una specie di eresia tanto più paradossale perchè, commessa per risanare i conflitti, nel tempo che seguì fu da spunto per altri. Basta fare solo il nome di Martin Lutero.

Verò è che ne pagò le conseguenze. Il Cardinal Caetani, poi succedutogli come Bonifacio VIII e che tutto era tranne che uno sprovveduto, probabilmente fu proprio quello che contrattò la forma in cui fu stilata la rinuncia, suggerendone più o meno apertamente il contenuto. Articolando un testo che ha giustificato, nei secoli successivi l’immagine di un Celestino V povero Cristo senza cultura e cognizione, mentre al momento a Caetani offriva, per le stesse ragioni, il pretesto per cancellare con la massima solerzia tutto quello che Pietro Celestino aveva fatto. Specialmente, guarda caso, il Giubileo legato alla Perdonanza.

Il paradosso di Pietro Celestino e quello di Quirino Salomone sta tutto qui, nel voler dichiarare una verità che mette in discussione ciò proprio che vogliono difendere.

Ed è a volte divertente guardare le facce del pubblico di fedeli inconsapevoli, affascinati da un frate che, per amor di fede e verità, impartisce lezioni che farebbero saltare gli zucchetti sulle teste di vescovi e cardinali.

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